Rassegna Sindacale, 19 gennaio 2007
“Scienze per la pace”, “Scienze del fiore e del verde”, “Scienze equine”, “Tecniche per l’allevamento del cane di razza e educazione cinofila”, “Scienze e tecnologie del fitness e dei prodotti per la salute”, “Scienze del turismo alpino”, “Scienze dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto”, “Filosofia delle forme”: sono questi solo alcuni dei corsi di laurea, nati dopo l’approvazione della Legge 509/99, analizzati nell’ambito della ricerca condotta dal Centro Studi sul Falso sulla situazione dell’Università italiana nell’a.a. 2005/2006 alla quale hanno preso parte, insieme a Salvatore Casillo, direttore del Centro Studi sul Falso e professore ordinario di sociologia industriale all’Università di Salerno, Sabato Aliberti, ricercatore, e Vincenzo Moretti, professore a contratto, presso lo stesso Ateneo.
Il primo dato che emerge è la crescita tumultuosa del sistema universitario determinato dalla cosiddetta riforma.
Come scrive Salvatore Casillo “Nell’anno precedente all’emanazione Decreto - diciamo così - di riforma, le Università e gli Istituti Universitari abilitati al rilascio del titolo di laurea erano 65, le Facoltà 433, i Corsi di Laurea 1240 raccolti nell’ambito di 90 denominazioni.
Nel 2005/2006 le strutture di istruzione abilitate al rilascio di titoli di laurea erano diventate 81, 541 le Facoltà, 1.065 le denominazioni dei 3063 Corsi di Laurea esistenti”.
Lo stesso trend presenta il dato relativo alle strutture: a fronte dei 4 atenei che in media erano presenti per regione prima della riforma, dopo, tra sedi centrali e poli decentrati, la media regionale è balzata a 17 università.
Un’eccezione per la verità c’è e si riferisce al fatto che molte delle Università di nuova istituzione nascono senza avere un numero sufficiente di docenti di ruolo (c’è perfino chi riesce ad operare con nessun docente di ruolo).
Come avviene il miracolo?
Utilizzando a piene mani l’esercito intellettuale di manodopera di riserva, i professori a contratto.
L’altro miracolo è quello delle convenzioni.
“Al 30 aprile del 2006 – spiega Casillo - risultavano 127 convenzioni di agevolazione dei percorsi di studio sottoscritte da 46 Atenei, mentre i soggetti partner delle Università erano 53. 48 di tali convenzioni contemplavano la possibilità di riconoscimento di crediti formativi universitari che raggiungevano e/o oltrepassavano la soglia delle 100 unità”.
A chi giova tutto questo?
Non certo al miglioramento dell'offerta formativa o delle prospettive dei nuovi laureati. Nè alla trasparenza e alla corretta gestione delle risorse pubbliche.
Come afferma Sabato Aliberti, “su questo terreno, nonostante sia stata ridisegnata completamente l’architettura del sistema di valutazione e istituito il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU), in sostituzione dell’Osservatorio, i risultati non sono stati quelli auspicati”.
“Il fatto che solo al termine della fase di avvio dell’istituzione sia necessario dimostrare un adeguato numero di docenti, ricercatori e personale tecnico di supporto alle dipendenze dell’Università, nonché dalle relative dotazioni di infrastrutture e servizi – prosegue Aliberti – fa sì che ad essere valutata non è la situazione esistente al momento della verifica quanto piuttosto quella prevedibile nel primo anno successivo al completamento degli anni di corso previsti dall’ordinamento didattico.
Una volta valutata positivamente, ed ottenuta l’autorizzazione a rilasciare titoli di studio legalmente riconosciuti, l’istituenda Università può avviare le attività formative anche in mancanza di docenti e strutture.
Non a caso, esaminando i giudizi tratti dalle relazioni stilate dal CNVSU tra aprile e giugno 2005 emerge che nessuno dei Corsi di Studio istituiti negli Atenei statali risultava privo dei requisiti di «compatibilità fra le esigenze di funzionamento del corso e le caratteristiche e la quantità delle strutture messe a disposizione» per il suo svolgimento, anche se per 38 di essi la scheda specificava che le sedi che li ospitavano erano ammesse con riserva”.
E le Università telematiche?
4 in tutto, nate tutte solo dopo la “riforma”, 19 facoltà, 20 corsi di studio, 2513 studenti, 3 docenti di ruolo (uno dei quali da anni in aspettativa per motivi parlamentari).
Come afferma Moretti, “è significativo che nessuno dei 20 corsi attivi nelle 4 Università considerate sia stato attivato nel rispetto dei requisiti minimi di docenza, dato che i 4 atenei hanno in organico complessivamente 2 professori ordinari, uno dei quali da anni in aspettativa per motivi parlamentari, nessun professore associato e 1 ricercatore; ciò nonostante, essi dichiarano un’utenza sostenibile pari a 7396 studenti; all’Università Telematica Management Audiovisivo TEL.M.A. viene concesso di avviare le attività senza che abbia neppure i requisiti minimi di docenza e la dotazione logistica e le attrezzature tecniche per operare”.
In un paese come l’Italia, dove chi intende fare ricerca è costretto di norma ad emigrare, davvero non si può fare a meno di dare concessioni a chi non ha i requisiti necessari finanziando con risorse pubbliche lo start up di strutture che di fatto non sarebbero in condizioni di operare? O di spendere miliardi per finanziare atenei che attirano clienti garantendo la possibilità di vedersi riconosciuti decine e molto spesso centinaia di crediti?
Rispondere di no è non solo giusto, ma persino troppo facile.
A fronte di una “riforma” che, come scrive Casillo parafrasando Braverman, “ha creato troppe lauree ottuse per il numero di persone ottuse a disposizione”, l’impressione è che occorra una radicale inversione di tendenza, una strategia che miri a sostenere davvero l’istruzione universitaria di qualità anche attraverso scelte coraggiose, come ad esempio il superamento dell’uguale valore legale dei titoli o la definizione di classifiche (raking) della qualità dell’offerta formativa universitaria.
L’auspicio è che la pausa di riflessione decisa dal Ministro Mussi, il sostanziale congelamento della concessione di nuove autorizzazioni, la revisione di quelle già concesse possa essere un primo passo nella giusta direzione.
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